Quale modo migliore per chiudere una settimana di lavoro decisamente impegnativa, se non dare fondo alle poche energie rimaste con un doppio appuntamento nella location più underground di Milano. Jon Hopkins e James Holden, Dude Club. Solo per stomaci forti.
Tra le prevendite esaurite in pochi giorni, la fila chilometrica all’ingresso e una line up interstellare, la sensazione che si prova una volta riusciti a entrare è quella di essere degli eletti. L’ingresso costa 25 euro a cranio. Moltiplicali per i pochissimi centimetri cubi d’aria rimasti qui dentro e riuscirai forse ad avere una vaga idea dell’attesa che si è creata per la serata.
Ondeggiamo tra la ressa del Dude cercando il nostro angolo strategico e lo troviamo accanto alla scala per andare sul tetto: l’unico punto di sfogo della calca che si è creata qui dentro, che come una canna fumaria sputa fuori il calore e le persone. Il posto pullula di fighe e gente superstilosa. C’è un che di mitteleuropeo in questa fiumana che fa la spola tra il bancone e la pista, ma la fauna è variegata, e compaiono anche, nell’ordine: erasmus un po’ puzzoni, zarri misti e gente che ha preferito dare fondo alle paste ancor prima di scendere dall’auto, e già alle undici meno un quarto ci sgomita accanto. Ehi, mascella tonica, datti una calmata.
Recuperiamo due vodka tonic appena in tempo: gli ululati dei clubbers ci avvisano che Hopkins, l’apripista, sta iniziando. Tendiamo le orecchie al fenomeno londinese che parte morbido e discreto come se stesse preparando un agguato, mentre la gente continua a deambulare senza sosta né equilibrio su e giù per il club. Hopkins smanetta come un disperato con gesti secchi e ripetuti, ma le frequenze sono ancora basse, qualche suono acido e profondo per temporeggiare. Il ragazzo sa come farsi desiderare, questo è certo.
Hopkins surfa con scioltezza attraverso dubstep, techno e ambient, trovando sempre l’amalgama giusta tra un genere all’altro e mantenendo costantemente una classe impeccabile. La sensazione che si prova nell’ascoltare il suo live set è inequivocabile: mette a proprio agio, come tutte le cose belle. E non è questione di cassa dritta né tantomeno di stacchi azzeccati: è proprio la sua visione d’insieme che affascina. Un dosaggio perfetto di ogni elemento, cassa dritta e suoni irreali che si alternano in un equilibrio chimico incredibile. La sua ora live trascorre fin troppo velocemente e ancor prima che gli entusiasmi dei presenti siano paghi ci ritroviamo sul tetto, a respirare, e ad aspettare il dj set del successivo mostro sacro: James Holden.
Bastano pochi minuti del suo dj set magmatico per rendersi conto del suo innegabile savoir faire: Holden monta e smonta ognuno dei pezzi che sceglie in una sua personalissima sequenza, un collage impeccabile di suggestioni capace di mandare in tilt chiunque. I presenti sono tanto entusiasti quanto disinibiti, e ci può anche stare: sono passate ormai un paio d’ore dall’inizio della serata, e nessuno qui dentro ha l’aria di essere uno stoico sostenitore della lucidità mentale. Per fortuna.
La notte inizia a mettere seriamente alla prova i ballerini sgomitoni: sui divani si alternano maschietti comatosi e coppiette che limonano duro. Recupero la mia giacca un attimo prima che qualcuno ci concepisca sopra e decidiamo che per stasera, è abbastanza. E poi sono quasi le 4, è ora del Kebab.
Dea
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